Ossessivo, ricorsivo, ironico, grottesco, depravato, sensibile, ragionevole, illuminato, detestabile, ipocrita, onesto, disonesto, volgare, inaffidabile, l’anonimo protagonista del romanzo conduce il lettore in una presa diretta dei suoi pensieri, anzi in due: le registrazioni di due on board camera mentali.
La prima è un turno di lavoro in fabbrica. Fabbrica tessile. A Biella. Tra le Alpi. Una fabbrica con colleghi e tessuti e macchinari e ingranaggi, con il Capo reparto e le cosce di Elisa, una fabbrica con l’area relax, i pranzi aziendali e quel fascista di Daniele, una fabbrica di rumore, dolore, doppiogiochismo, falsità, una fabbrica di coazione a ripetere dove il protagonista lavora da vent’anni; e dove lavorava Giacomo, fino a che non si è suicidato.
Un inaspettato evento chiude il turno di lavoro e il primo labirinto di pensieri del protagonista. E se la fabbrica dipinge con graffiante sarcasmo la metafora di un malessere collettivo, è nella seconda parte che il lettore entra nel malessere personale. Il protagonista si sposta, lui con i suoi pensieri, dentro la casa di Giacomo, a colloquio con il padre dell’amico, Morgan, e viene investito dal suo monologo. Seduto sul divano, nel salotto di casa, circondato da dipinti inquietanti, il protagonista assiste inerme al monologo di un artista, Morgan, ossessionato e sopraffatto dalla propria arte; il monologo di un uomo che è marito e padre di suicidi: vittima, complice e artefice della follia.
Senza poter fare a meno di un’ironia e di un senso dell’assurdo salvifici e provvidenziali; senza mai nascondere, anzi riconoscendo apertamente il debito verso i maestri – Camus, Céline, Dostoevskij e quel Thomas Bernhard tanto amato da Giacomo e dall’anonimo protagonista –, La fabbrica è un mondo inestricabile di dicotomie e contrasti: sanità e follia, libertà e coazione, socialità e isolamento, uomo e natura, creatività e ossessione. Ma soprattutto, è un inno a un istintivo e insopprimibile attaccamento alla vita.